domenica 30 settembre 2012

Angela Davis: "Fui usata per incutere paura"

    
Intervista ad Angela Davis in occasione della presentazione del documentario Free Angela & All Political Prisoners, della regista Shola Lynch, al Toronto International Film Festival.

di Luciano Monteagudo
                    

" Non credo che i miei principi siano cambiati nel corso degli anni. Né tantomeno il mio impegno politico".Chi parla è Angela Davis, una delle attiviste politiche più famose degli anni 60/70, una figura emblematica non soltanto per il suo discorso fortemente rivoluzionario e per la sua rilevante militanza nei BlacK Panters, ma anche per il suo famoso taglio di capelli "afro", che divenne popolare a suo tempo, tra le donne nere. Oggi, all'età di 68 anni, questa intellettuale e docente universitaria, formatasi all'Università di Francoforte sotto la guida di Herbert Marcuse, è arrivata a Toronto all'International Film Festival per sostenere il lancio del documentario Free Angela & All Political Prisoners.

Diretto da Shola Lynch,il film racconta la storia della Davis, quaranta due anni fa quando fu coinvolta dall'FBI nel rapimento ed omicidio  del giudice Harold Haley, del Marin County, California. Coinvolgimento dal quale fu poi assolta, nonostante la pressione posta a suo tempo dal governatore dello stato, Ronald Reagan,che nel 1969 era riuscito a espellerla dall'Università della California (UCLA) per la sua aperta militanza nel Partito Comunista .
Latitante per la Giustizia della quale ovviamente era sospettosa, Angela Davis rientrò a 24 anni, nell'elenco dei dieci fuggitivi più pericolosi dell'FBI, fino a quando fu arrestata nel mese di ottobre del 1970. Si scatenò allora una campagna internazionale per la sua liberazione alla quale parteciparono John Lennon e Yoko Ono, che composero anche la canzone "Angela" nell'LP Some Time in New York City  e dei Rolling Stones, che registrarono il singolo “Sweet Black Angel”, incluso poi, nell'album Exile on Main Street.


"Non ho mai cercato questo grado di esposizione pubblica ed è stato molto difficile da accettare allora",ricorda Angela Davis in un'esclusiva intervista con Página/12, in una suite al Metrotel Soho di Toronto. " Il mio approccio era esclusivamente politico e neppure nei miei sogni più selvaggi ho mai pensato che sarebbe stato spinto in quella direzione. Ma allo stesso tempo ero consapevole che si trattava di qualcosa con il quale dovevo imparare a vivere. Quindi, si trattava di usarlo, non tanto in mio nome quanto per tutte quelle persone che non avevano voce in quel momento. "

- Si riferisce ai suoi compagni attivisti nei Black Panters?

- Esattamente. Perché la campagna nazionale per la mia libertà iniziò originariamente con lo slogan " Free Angela", ma io ho pensato che sarebbe dovuto essere " Liberate Angela Davis e tutti i  prigionieri politici"che è la frase che ora Shola Lynch ha scelto per il suo documentario.

- Nel film si dice che la tripla condanna a morte chiesta dal pubblico ministero, non tanto era diretta a lei personalmente, quanto a tutto ciò che lei incarnava. Può chiarire questa idea?

- Mi resi subito conto che tutto questo accanimento verso di me, eccedeva la mia figura e la mia situazione personale. In primo luogo, perché non potevano ammazzarmi tre volte. Ed ho anche capito la gravità di tutta la situazione. Erano decisi ad uccidere la costruzione di questo nemico immaginario. Ed io incarnavo questo nemico, perchè nera,donna e comunista. Quando l'FBi cominciò a perseguitarmi ne approfittò per incarcerare  centinaia di giovani donne nere come me. Hanno approfittato della situazione per cercare di instillare la paura in tutta la comunità nera.

- Cosa è cambiato da allora?

- Penso che molte cose siano cambiate. E credo che siano cambiate grazie alla lotta che abbiamo fatto. Quando sono arrivata all'università ero una delle pochissime  fortunate donne nere. Oggi,non è più così, anche se dobbiamo riconoscere che c'è ancora un enorme divario tra il numero degli studenti bianchi e neri. Ciò che mi rattrista molto è che in quel momento, quando lottavamo per la liberazione di tutti i prigionieri politici nella fattispecie e contro l'istituzione carceraria in generale, ci sorprese la quantità di gente che erano in prigione nel paese,però oggi ci sono negli Stati Uniti, più persone in carcere di allora.Oggi, nel mio paese ci sono due milioni e mezzo di persone in prigione. Uno ogni 37 adulti è sotto il controllo del sistema carcerario. Ed è una percentuale molto alta. E' il paese con la maggiore popolazione carceraria del mondo.

- A cosa attribuisce questo?

- Ai tassi di povertà, senza dubbio. La maggior parte degli uomini neri giovani sono disoccupati.Questo è ovviamente un problema politico e anche di razzismo. E 'vero che i libri di testo non si esprimono apertamente il razzismo come succedava prima e che ufficialmente non c'è segregazione razziale,ma per molti versi la situazione è peggiore oggi che mezzo secolo fa.

-  Anche con un presidente nero come Barack Obama?

- Sí, es triste dirlo, ma le cose sono peggiorate con un presidente afroamericano alla Casa Bianca.Questa è l'ironia. Perché mezzo secolo fa sarebbe stato impensabile che  che un uomo nero potesse diventare presidente degli Stati Uniti, cosa che oggi è possibile. Ma oggi nessuno alla Casa Bianca si preoccupa che un milione di uomini neri sono imprigionati. E questo ha una relazione diretta con il completo smantellamento del sistema di protezione sociale e la de-industrializzazione che il paese sta vivendo,con la conseguente perdita dei posti di lavoro. Prima la popolazione nera aveva nel settore siderurgico, automobilistico  e nelle altre industrie la sua fonte lavorativa, che ora sono state trasferite in altri paesi dove la manodopera è molto più economica. Sono nata e cresciuta a Birmingham, in Alabama, dove l'industria siderurgica era la principale fonte di lavoro. Anche se continua a d esserlo ha sempre meno posti di lavoro. E se si aggiunge la mancanza di sostegno sociale, la mancanza di istruzione, l'assenza di un buon sistema di sanità pubblica,accade che il carcere si trasforma nella soluzione per difetto di  tutti i problemi sociali che  non vengono affrontati politicamente.

- Parlando di prigioni ... Perché pensi che Obama non abbia mantenuto la promessa di chiudere la prigione di Guantanamo?

-Questo è quello che avrebbe dovuto fare fin dall'inizio,ma non ha assunto bene il governo. In molti modi si dice che la cosiddetta " guerra al terrorismo" è superata. Ma dobbiamo anche riconoscere che il primo motivo per cui Guantanamo non è stato chiuso  è perché  noi scendemmo in strada a rivendicarlo. In molti casi, la gente che ha eletto Obama non è rimasta vigile e attenta. Viceversa si sarebbe creato un movimento di pressione tale da far chiudere Guantanamo. Un movimento per creare anche  un miglior sistema per la salute pubblica, migliore istruzione, educazione,ecc. Questo è ancora quello che dobbiamo fare.

- Per le prossime elezioni?

-Assolutamente. Dobbiamo uscire ad occupare spazi, acquisire una dimensione di ciò che è possibile e necessario fare.


da Colsi la prima mela

 

giovedì 27 settembre 2012

In difesa della 194

In occasione della "Giornata Internazionale per la Depenalizzazione dell'Aborto" (28 settembre), vi proponiamo un video di nostra produzione che ripercorre la nostra storia, le battaglie della società italiana per difendere il diritto di scelta delle donne

La legge 194 sull'interruzione volontaria di gravidanza, risultato delle lotte del movimento femminista in Italia negli anni '70 e di alcune forze politiche, è da sempre attaccata dalla Chiesa cattolica e severamente limitata dall'obiezione di coscienza del personale medico e infermieristico. Recentemente ci sono stati anche attacchi diretti da parte della classe politica al potere. Al di là di ogni considerazione etica che porta ogni donna a decidere se portare avanti o meno la gravidanza, la 194 ha indubbiamente permesso di ridurre drasticamente il numero di morti in aborti clandestini e, favorendo la contraccezione, quello delle stesse IVG . Difendiamo la 194!


martedì 11 settembre 2012

Profumi e balocchi: l'eterno senso di colpa


. “… Mamma, mormora la bambina… per la tua piccolina, non compri mai balocchi, MAMMA TU COMPRI SOLTANTO PROFUMI PER TE!”


A questa canzone antica, che evidentemente devo aver ascoltato da piccola, devo probabilmente la mia scelta di non fare figli! Ricordo infatti il senso di oppressione che mi pervadeva ascoltando queste parole, e ricordo molte nettamente la mia identificazione non nella bambina ma nella madre, tiranneggiata dal senso di colpa perché aveva osato comprare “profumi” per se stessa… “se questo vuol dire fare dei figli, ho pensato con l’ arguzia di una bambina di due anni, allora meglio non farne!
Questo lo spunto di apertura di una riflessione a tutto campo sul tema del senso di colpa, l’arma più potente in mano al patriarcato contro le donne, potente proprio perché fortemente interiorizzata



Come funziona il senso di colpa

Il meccanismo è il seguente: si tratta di costruire un modello a cui ci si deve adeguare, formato da regole comportamentali, costrutti, stati emotivi, insomma, comprendente tutto ciò che attiene alla persona, che sia in linea con i principi e gli interessi del potere dominante (in questo caso il patriarcato, e la chiesa cattolica che ne rappresenta il braccio armato più pericoloso)

Tal insieme di modelli vengono presentati come naturali e normali, oltrechè per lo più INNATI, cosa che rappresenta una vera e propria mistificazione, essendo  invece tali modelli creati e imposti  e non presenti naturalmente nelle donne stesse

L’efficacia di tali modelli è data dal fatto che essi vengono INTERIORIZZATI, ossia presentati in maniera diffusa e capillare già dal momento prelogico della vita della persona, quando tutto ciò che arriva viene assorbito come una spugna. Veicolo di tale interiorizzazione sono le forze retrive della società, l’educazione sessista e, prima fra tutte, la Chiesa.

La donna che si trova nella situazione per cui esiste un modello mistificato e d interiorizzato, sperimenta su di se il fatto incontrovertibile (per quanto puoi negare di provare alcuni sentimenti e sensazioni, non pupi farli cessare di esistere e di agire dentro di te!) di non corripondere affatto al modello prescritto, in quanto non sta provando, facendo, sentendo, ciò che dovrebbe provare, sentire, fare in tale situazione.
Data però la mistificazione iniziale che vuole tale fare, sentire, provare come “INNATO”, la donna pensa di essere SNATURATA, in quanto un comportamento INNATO non è presente in lei, oltre che INADEGUATA in quanto non è capace di fare, sentire, provare ciò che TUTTI gli altri provano fanno e sentono.

Ovviamente non c’è mistificazione che si rispetti senza TABU’, ed è proprio grazie al tabù che si innesca su queste tematiche che ben poche vittime riescono a confrontarsi con altri sull’argomento! Se ciò accadesse probabilmente la mistificazione verrebbe smascherata più efficacemente. Invece NO, ognuna resta sola con la propria inadeguatezza e con la propria colpevolezza di essere “fatta male” “cattiva” “snaturata”

Così la donna si sente in colpa perché non è una buona madre come “dovrebbe” essere per natura, perché addirittura abortisce, senza per questo cadere in depressione, perché crede di essere padrona del proprio corpo mentre esso non è altro che l’inizio di ogni colpa, e via così…

Analizziamo ora ciascuno di questi momenti per scoprire come il senso di colpa e di inadeguatezza agisce allo scopo di impedire alla donna di autodeterminarsi con serenità nei momenti basilari della propria esistenza



IL MITO DELLA MATERNITA’




La principale fonte di sensi di colpa così descritti è quella che attiene al mito della maternità.

Il principale costrutto che regge l’intero mito è rappresentato dalla convinzione, fortemente interiorizzata nella nostra cultura cattolica,  dell’esistenza dell’ISTINTO MATERNO, e che esso, come istinto appunto, sia INNATO
Certamente in natura esiste una spinta all’accudimento della prole che si presenta innata nella maggior parte degli animali, sorretta però dal particolare aspetto dei cuccioli di ogni specie, che con le loro forme tondeggianti evocano  sensazioni di tenerezza e protezione. La natura, per così dire ci ha pensato lei stessa a far sì che i cuccioli, animali indifiesi, con il loro aspetto facciano scattare il senso di accudimento nell’animale adulto.
Fin qui nulla di strano.

Ma l’istinto materno che vogliono contrabbandarci va ben oltre!

Esso si basa su di un altro assunto caro al patriarcato, ossia che la donna fondi l’unica sua ragione di esistere nella procreazione, e che quindi soltanto al momento della maternità essa possa essere veramente felice e appagata.

In accordo con tale assunto nasce il modello mistificato delle “madre perfetta”, che già in gravidanza sprizza serenità e gioia da tutti i pori, che non ha MAI nessun sentimento ambivalente nei confronti del suo corpo che sta cambiando né tantomeno nei confronti del nascituro, che al momento del parto soffre, ma con goia, e che quando il bambino è nato, da quel momento in poi il sentimento di felicità, accettazione, amore a prima vista sarà così forte da annientare ogni altro sentimento!

Ma la pratica clinica, e l’esperienza di milioni di madri dicono invece il contrario, raccontano di sensazioni di perdita del controllo del proprio corpo, di ambivalenza estrema nei confronti del nascituro e del bambino, di paura, di sentimento di estraneità, depressione, rifiuto del bambino, come fatti all’ordine del giorno.

Ma la mistificazione insita nel mito della maternità impone l’esistenza di un istinto INNATO in ogni donna! Ecco che la madre che non prova affatto tale felicità, che p impaurita, ambivalente, ossia la madre NORMALE, perché questa è la normalità, sente che qualcosa in lei non va….. si domanda: ma se TUTTE le madri amano senza ombre e senza ambivalenze il loro bambino, sono pervase dalla serenità della gravidanza, aspettano il parto come una festa e poi si dedicano al loro pargoletto senza più vedere se stesse, allora Io che non sono così, sono UNA MADRE SNATURATA!!!!!


Ed ecco il senso di colpa, quello, quello profondo, insidioso perché mina alle fondamenta dell’autostima e dell’armonia individuale, che fa il suo ingresso in pompa magna e si appropria della coscienza della donna… fino ad annientare ogni capacità di reazione. 
Basterebbe confrontarsi con le altre madri, per sapere che non si è sole a provare tali sentimenti ambivalenti, ma che TUTTE le altre, n un modo o nell’altro li hanno provati, e che quindi la bufala dell’istinto materno innato è appunto una bufale, ma l’enorme TABU’ che circonda questa sfera lo impedisce. Ogni donna resta sola con i suoi fantasmi, con la sua sensazione di inadeguatezza, con la sua convinzione di essere una madre imperfetta e cattiva, che compra profumi invece che balocchi.


L’ABORTO


Il lato più perverso dell’oppressione patriarcale attraverso il senso di colpa si raggiunge riguardo all’aborto.

Se infatti la mistificazione tende a far sentire le donne cattive madri, o addirittura madri snaturate se non attemperano al mito della maternità sopra esposto, a maggior ragione agisce con forza annientatrice su quelle donne che osano interrompere la gravidanza!
Intanto queste tapine hanno osato  contravvenire al primo precetto patriarcal - clericale che vede il destino della donna esaurirsi completamente nella procreazione: esse hanno infatti fatto sesso senza la volontà di procreare!
Poi, ovviamente, sono mostre assassine, che uccidono poveri feti inermi facendoli a pezzi.
Ma tutto questo non basta, c’è un’ulteriore modello mistificato che incombe su di loro e di questo voglio parlare qui, il modello che prevede come “naturale” che la donna che interrompe la gravidanza soffra turbe psichiche che la accompagneranno poi per tutta la sua vita, dalle quali non si riprenderà mai più, anche se facesse 20 anni di analisi!

Nell’articolo “Aborto, le chiacchiere strumentali sui rischi psicologici nelle donne”

, Lisa Canitano descrive bene questo fenomeno, esemplificandolo in questo modo .


 "non c'è niente di più colpevolizzante per le donne che veicolare l'idea che dovrebbero colpevolizzarsi"

 

Il meccanismo perverso è sempre lo stesso : ti inculcano che se abortisci penerai in eterno, che l’esperienza lacerante ti perseguiterà per sempre, che non riuscirai più ad avere una normale vita affettiva, ne tantomeno ad essere una buona madre in futuro,  fortunatamente questo non è così vero, soprattutto nel caso di donne consapevoli che scelgono di interrompere la gravidanza in modo perfettamente cosciente e  ragionato, di certo non è una passeggiata, ma  non restano marchiate a vita nella loro psiche.



 

Ma ecco che si insinua anche in questo caso, come nella gravidanza, il dubbio strisciante, se io non sento questo malessere opprimente, se ho superato lo choc e ho una vita normale, pur avendo abortito, mentre è “NATURALE”  restare infelice a vita e soffrire di turbe  inenarrabili, allora sono IO ad essere insensibile, sono io che disprezzo la vita umana, sono io ad essere un mostro snaturato!

 

E ci risiamo

 

La cosa più triste è che questa concezione viene perorata e diffusa anche tramite molti cosidetti “movimenti femminili” che si producono nella descrizione di improbabili ricerche scientifiche  a sostegno del mito dell’insuperabile trauma da aborto, ricerche che l’articolo citato sopra cerca di smentire.
Anche in questo caso, basterebbe confrontarsi, ma forse qui il tabu è ancora più forte che nel caso della gravidanza, e ogni donna cova dentro di se il senso di colpa di non essere in colpa.

Perverso ma tristemente vero

Basterebbe ragionare sul fatto che, mentre si fanno crociate a difesa dei feti, bambini già nati, che sorridono, parlano, camminano, sentono e provano sentimenti vengono lasciati morire perché non viene permessa la ricerca sulle cellule staminali fetali, le uniche in grado davvero di debellare alcune malattie oggi incurabili.
E’ sconcertante l’ipocrisia di tali scelte, ma la società tutta sembra metabolizzarle senza problema,  acriticamente, lasciando le donne sole ancora una volta a lottare contro i loro fantasmi.
E’ ora di dire basta e smascherare questi meccanismi, è ora quindi di far circolare più possibile le voci critiche rispetto ai grandi miti che aleggiano intorno alla questione di genere, riconoscendone il loro vero volto: quello di trappole escogitate dal patriarcato, che, attraverso il suo braccio armato costituito dalla chiesa cattolica , costringono da secoli la donna a vivere nell’eterno senso di colpa.

Veronica Vega


sabato 8 settembre 2012

La tirannia della bellezza. Attraverso gli occhi degli altri.

Come le donne aggrediscono se stesse valuntadosi da uno  sguardo patriarcale. 
Parte Prima.


 Annerys Carolina Gómez
Il presente articolo è la ricostruzione di una prova finale  assegnata dal prof.
Hector Gutierrez G., dal titolo " Il fenomeno sociale del machismo: ideologia, problematica, alternative" del Dipartimento dei  Processi Ideologici, Culturali e di  Comunicazione della Scuola di Sociología, Facoltà di Scienze Económiche e Sociali, Universidad Central de Venezuela (Caracas, República Bolivariana de Venezuela) durante il secondo semestre dell'anno 2008.

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da Colsi la prima mela
ll fenomeno sociale della "tirannia della bellezza" è una questione complessa, a causa della molteplicità di fattori che entrano in gioco nel momento in cui si manifesta.  Abbiamo bisogno di riflettere su di esso al fine di indicare ciò che la scrittora dominicana Denise Paiewonsky  ha chiamato "l'empowerment delle sfera personale femminile"

In questo senso, la problematica socio-ideologica legata alla "bellezza egemonica" e al mantenimento e prevenzione della "eterna gioventù" ha trascinato molte donne e ragazze in un vortice di stress psicologico ed emotivo; un mondo pieno di angosce, ossessioni, appassionati sforzi e conseguenti costi di energia per il raggiungimento di questo irreale ideale che ci vende il sistema patriarcale, fino,in alcuni casi, alla morte, casi in cui la cifra vera non è stata ancora ben quantificata.

Rifletteremo  sulla stessa costruzione sociale della femminilità egemonica in termini di oggettivazione delle donne e come  questa influisca sugli ambiti relazionali quotidiani,alterando le modalità di interazione con gli altri e con il suo stesso genere, portando a prendere decisioni e schemi comportamentali che l'aggrediscono emotivamente, economicamente, fisicamente, ecc.

Parlare di ciò presuppone una riflessione circa il fondamento ideologico che sostiene,stimola e potenzia un fenomeno di questo tipo, vale a dire, come il mantenimento e la riproduzione di un discorso ideologico specifico finisca per essere funzionale al sistema  patriarcale  e capitalista che prevale nella maggior parte del mondo e,che, nella misura in cui privilegia certi settori detentori del potere,continuerà riprodotto e solidificato, mediante l'aiuto delle  multinazionali in stretto legame con ciò che si chiamano mass-media.

Alla fine, presentiamo come indispensabile e necessario il riferimento alle possibili soluzioni in vista di un progressivo miglioramento e trasformazione del fenomeno, per i quali menzioneremo alcune strategie socio-psico-politiche che dovrebbero essere considerate e, che di fatto, in alcuni paesi lo sono già.

Cominceremo la nostra analisi ragionando sulla costruzione sociale della femminilità. Nel sistema patriarcale nel quale vivono e hanno vissuto le nostre società, il "corpo della donna"è visto come elemento fondamentale della reificazione e controllo esterno, cioè uno spazio primario di oppressione di genere : è stato considerato e valutato in una misura che assume e si esprime mediante una dedizione quasi esclusiva "agli altri", cioè a tutto ciò che è fuori da se stessa. Citando  gli assunti della scrittora e antropologa messicana Marcela Lagarde (1),nella cultura patriarcale - che varia la sua intensità a seconda del settore sociale, del quale si parla - siamo e siamo sempre state considerate corpo erotico per il piacere degli altri, corpo estetico per il godimento degli altri, corpo nutriente per la vita degli altri, corpo procreativo della vita degli altri e, in questo senso,all'interno del patriarcato siamo riconosciute e valorizzate solo nella misura in cui, ci dedichiamo a questi tanti altri ( siano essi reali o immaginari).

In un contesto sociale in cui si verifica quanto sopra, guardiamo a noi stesse  attraverso  gli occhi- degli e delle - altri/e: ci guardiamo allo specchio "come un oggetto" ci osserviamo mercificate. Ci incontriamo in un mondo in cui difficilmente siamo valorizzate " più in là" dell'apparenza fisica, in un mondo che ha distorto l'immagine corporale e ha posto il nostro corpo come l'unico strumento di potere - se così si può chiamare - niente altro che uno strumento di seduzione, niente di più che un oggetto sessuale.

Continuando con Lagarde è nel corpo delle donne che risiede il nucleo dei suoi poteri e della sua valorizzazione sociale e culturale. In modo che per la morale estetica egemonica( per mandato patriarcale) questo corpo deve rimanere giovane e snello il più a lungo possibile, attraverso l'uso di qualsiasi rimedio, ridisegnato - di moda in moda - per adattarsi al modello estetico in vigore in quel momento.

Nella nostra attuale società questo sforzo per imitare questo "ideale" che nega le nostre diversità e qualità personali, ci evoca l'idea di Niccolò Macchaivelli " Il fine giustifica i mezzi", così il perseguimento di questo difficile ed illusorio obiettivo fa sì che numerose donne passino  attraverso il modo frustrante e amaro di confrontare se stesse con queste figure minoritarie che appaiono nelle riviste,programmi televisivi,reality shows,che sono lodati e adulati da tanti maschi sessisti.

Questa problematica ci pone inevitabilmente diversi interrogativi: qual è la causa che porta a questa situazione? Cos'è che spinge molte donne ad aggredire se stesse nella ricerca di qualcosa praticamente irraggiungibile? Forse, nessuna donna nota il danno che provoca a se stessa e nel suo contesto sociale? Esisterà poi "qualcosa"che invisibilizza i danni e le aggressioni? Cos'è che lo banalizza?  Sarà un insieme di interessi " dentro" tutto questo gioco  di "essere belle, attraenti e preziose", sessualmente parlando?.

Per cercare di rispondere a questi interrogativi, concentreremo le nostre analisi nella critica di due prospettive ideologiche: una sostentata dal sistema androcentrico propriamente detto e l'altra che si trova nel contesto dell'ideologia liberal capitalista.

La nostra prima ipotesi emerge dall'ambito socio-culturale dell'androcentrismo: crediamo che queste pratiche siano sostentate da ciò che è noto come l'"ideologia dell'amore".Ci è stato insegnato fin dall'infanzia che l'amore " non esiste per le donne brutte" o che era molto difficle da raggiungere. Le fiabe che ci hanno letto da piccole, i films di principesse che tanto ci rallegravano, sono tutte influenzate da questo discorso, che generalmente è sempre " la principesa rosa",bella, giovane e dolce, che per i suoi stessi attributi fisici conquista un "principe azzurro" che la salva dall'orribile drago o dalla malvagia matrigna realizzando così di vivere insieme felici e contenti.

Conseguentemente,l'amore ideologicamente si trasforma nell'obiettivo primario di tutte le donne. Il suo sostegno ideologico patriarcale risiede in quella meta preconizzata come "destino" manipolata storicamente dalle classi dominanti per il raggiungimento dei loro negligenti scopi e per il mantenimento al potere delle stesse.

Allo stesso modo,se ci è stato insegnato che la solitudine è "cattiva" e deve essere " evitata ad ogni costo" ci fanno credere che siamo esseri incompleti che vagano nella vita alla ricerca della "dolce metà", questo essere che ci completa e ci riempie il vuoto identitario che ci hanno creato ed imposto. C'è un desiderio ed un anelito di uscire dal nostro "isolamento" attraverso l'incontro con un altro essere umano, una necessità -creata - di condividere il resto della nostra vita con lui/lei. Ci hanno genericamente formato come donne, dipendenti dagli altri e si è stigmatizzata  terribilmente la solitudine riempiendola di aspetti e valutazioni di carattere negativo. Questo è facilmente visibile in frasi di uso quotidiano come "Hai bisogno di compagnia?", "Che cosa c'è che non va?, Sei triste?" " vuoi restare sola, povera te se ti passa" o frasi come: "Quando siamo soli, siamo sempre in cattiva compagnia", "la solitudine è triste e fredda", " la solitudine appare quando hai bisogno di qualcuno nei momenti peggiori ed i peggiori momenti sono quando sei sola ", ecc.
Come si  può notare, c'è questa stigmatizzazione della solitudine, concepita come una sorta di vuoto tortuoso, "ciò che resta " quando qualcosa o qualcuno " non c'è".

Tutto questo colpisce particolarmente le donne sessiste,perché in un sistema patriarcale in cui percepiamo o ci impongono l'Uomo come superiore a noi,in un ordine sociale in cui ci sentiamo o ci fanno sentire inferiori, il significato di essere " trovata" o "scelta" da uno di loro è davvero incoraggiante e quando non riusciamo, siamo crudelmente condannate e la società ci definisce " zitelle" " brutte" " acide" o "incapaci". A questo proposito, la femminista Hanna Olsson (1983) 2, mette in evidenza il fattore di idealizzazione che realizziamo come donne nelle relazioni amorose, e suggerisce che il grado di idealizzazione che facciamo "del nostro partner" dipende dal livello di autostima che abbiamo come persone.


L'importanza dell'"Uomo" per le donne dentro un sistema sociale così strutturato è quindi fondamentale:la trasforma in "qualcuna" acquista uno "status" le dà un "valore". Questa glorificazione dell'Uomo - afferma Olsson - oltre a portare la donna a percepirsi come inferiore e subordinata nei confronti del maschio,la rende anche cieca di fronte agli aspetti della personalità dello stesso che,poi, possono rivelarsi distruttivi per essa e per il suo rapporto: "La speranza di ricevere amore,di essere amata, è così intensa, che l'immaginazione occulta la realtà" 3.

Tutto ciò è stato detto per arrivare ad una semplice conclusione: " Il consenso nel sottomettersi e rinunciare a se stessa diventa una prova d'amore"(Olsson) 4. In questo le donne agiscono sulla base  di " Ciò che lui vuole, come lo vuole e come vuole che io sia" e all'interno di queste esigenze, ovviamente, si trova la richiesta di apparenza.

Molti uomini maschilisti, nell'esercizio del potere,oggettivizzano le donne,le riducono ad un  volgare "pezzo di carne" che ha valore per la sua attrattiva sessuale ed è sfruttata in questa direzione. Di conseguenza, molte donne sessiste nel loro esercizio di immanenza e dipendenza agiscono mostrandosi come oggetti, soddisfacendo i bisogni e le richieste di quei maschi voyeuristici, misogini, egoisti e megalomani che le riducono ad un verdetto " E' bella" o " E' bonissima".

Crediamo quindi, che che la donna sessista,in questo senso, realizza delle pratiche di negazione di se stessa - in funzione della dipendenza ed attaccamento che ( in modo sottile o no)  imposto per la figura maschile in particolare. Questo attaccamento interpersonale è motivato da diversi fattori legati al genere, tra i quali possiamo citare la forza, la sicurezza e protezione che presuntivamente le offre il maschio; la stabilità e la permanenza di fronte alla paura dell'abbandono o alla mancanza di essere amata; la paura di soffrire il disinnamoramento e la scarsa autostima prodotta dalla mancanza di affetto; l'adulazione, l'idolatria e l'ammirazione per il maschilista basata sulla paura della disapprovazione e disprezzo da parte dello stesso, ecc.


Questa dipendenza genera un modello specifico di relazioni intergeneriche e trageneriche. A livello intragenerico vi è la convinzione della superiorità del maschio,il che comporta che la donna sessista si mostri sottomessa e passiva ai suoi desideri; a livello intragenerico, si promuove la competitività e la rivalità tra le donne al fine di ottenere il riconoscimento di un determinato maschio,che all'interno di questo sistema patriarcale sarà preferibilmente uno bello, di successo, e -quasi- esclusivamente machista.

Adesso, brevemente, ci avviciniamo agi aspetti relativi alle motivazioni radicate nell'ideologia libera-capitalista,  analizzeremo faremo riflessioni sugli interessi corporativi e di classe insiti nella macro-industria della bellezza. Per far ciò prenderemo come base la manifestazione dello " stereotipo egemonico di bellezza" che è di natura prevalentemente occidentale.


Continua








                                                                              

venerdì 7 settembre 2012

Lotta all'Islam e strumentalizzazione della questione femminile - Capitolo 1


Partiamo da qui, da questo manifesto elettorale. E per un attimo proviamo prescindere dalla paternità (leghista) del manifesto.


Proviamo ad andare oltre.
Che cosa vediamo?

Due immagini contrapposte:

a sinistra una donna con il velo, lo hijab, all'interno di una gabbia. Sul suo volto un'espressione disperata.
A destra due donne, che potremmo definire "in carriera", presumibilemente sul luogo di lavoro, truccate, agghindate e con un'espressione facciale tutt'altro che disperata.


In fondo al manifesto, una scritta: "Siete disposti a rischiare?". E ancora "No alla Turchia in Europa".

Tralasciamo domande del tipo: 
1. chi rischia? le donne? e allora perché non usano il femminile (siete dispostE a rischiare)? forse perchè allora dovrebbero (dovremmo) ammettere che il problema sono gli uomini, piuttosto che le religioni e le etnie?
2. o forse a rischiare sono gli uomini? che cosa rischiano? di tornare a non meno di 60 anni fa, quando il delitto d'onore era ancora consentito dalla legge e impunito? non è che forse rischierebbero di trovarsi a proprio agio con le mogli dietro le sbarre? 
3. e ancora, ci si vanta tanto della nostra "civiltà", del fatto che sia così ben radicata; ma allora come mai la si difende a spada tratta, con tale accanimento? non è che forse tutta questa "civiltà", quando si tratta di donne, assume confini molto ma molto più labili?

Tralasciamo queste domande e andiamo al punto della questione: l'uso che si fa, all'interno delle società occidentali, della questione delle donne islamiche ovvero di religione musulmana. L'uso strumentale che si fa della questione femminile per alimentare e legittimare pregiudizi e teorie xenofobe, razziste e filo-occidentali.


Le argomentazioni su cui generalmente si fondano tali teorie xenofobe, rispetto alla questione delle donne islamiche sono queste:

  1. Le donne islamiche hanno l'obbligo di coprirsi, di indossare il velo, il burqa, il chador.
  2. Le donne islamiche non hanno gli stessi diritti civili degli uomini.
  3. Le donne islamiche possono essere picchiate dal marito se lo contraddicono, stuprate se non adempiono ai doveri coniugali e uccise in caso di adulterio.

Analizziamo un punto alla volta, nel tentativo di fare le differenze con quanto accade nel nostro bel Paese e di mettere in evidenza come questa contrapposizione fra donne islamiche e donne occidentali sia fittizia.


Il velo.

Premettiamo che esistono molti tipi di velo, più o meno lunghi, che si usano in regioni geografiche differenti seppur della medesima religione musulmana.
Il più diffuso è lo hijab, ossia il velo che copre il capo e il collo. Questo viene menzionato nel Corano in termini molto generici e non come un'indicazione da seguire in maniera obbligatoria.

"Il velo appare solo una volta nel Corano come raccomandazione all'interno del  comportamento della decenza. Ma questa raccomandazione serve allo stesso tempo, sia per gli uomini che per le donne. [...] Il concetto di hijab è più che  il velo islamico. Riguarda la modestia nel comportamento, il rispetto della vita privata, e con il tenere un atteggiamento dignitoso in ogni momento." (Amina Nasreen) 

Tant'è che con l'avvento della religione islamica in Oriente, quindi ai tempi del califfato, l'uso del velo non riguardava tanto le donne, quanto il califfo: quest'ultimo utilizzava un drappo di seta, appunto lo hijab, per tutelarsi dagli sguardi importuni dei propri congiunti. Con il passare del tempo, l'uso del velo è mutato. E' diventato una peculiarità femminile, sebbene anche gli uomini siano chiamati a indossare un copricapo nei momenti di preghiera. Per quanto riguarda le donne, da "accessorio" necessario nei luoghi e/o durante momenti di preghiera e meditazione, il velo è poi diventato un "accessorio" da indossare nei luoghi pubblici, ovvero fuori dalle proprie mura domestiche.

Non entriamo nel merito dell'uso del velo come "giusto" o "sbagliato" (piuttosto vi rimandiamo alla lettura di un articolo - cliccate qui - che potrà, speriamo, insinuarvi qualche dubbio...), cerchiamo piuttosto di capire se un rituale simbolico di questo tipo - cioè l'uso di un abbigliamento specifico per le donne - sia davvero solo limitato alle culture medio orientali e alla religione musulmana.








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No, non sono donne islamiche.


Sono suore.










Le suore sono, sì, obbligate ad indossare un abito che le copra dalla testa ai piedi.

Eppure nessun* considera tale rituale simbolico come segno e frutto di oppressione.






Ma i dictat non riguardano solo le monache...





Devi essere magra, ma non rachitica perchè le forme mettono gli uomini di buon umore, non deve esserci traccia di un filo di cellulite sulle tue cosce perché - se ancora non lo sai e checchè ne dica l'OMS - la cellulite è una malattia e un medicinale può combatterla (se lo dice Somatoline ti puoi fidare), guai però se esci con un uomo e mangi insalata perché quello che mangi dice come sei a letto e tu devi essere una panterona, devi farlo impazzire. Nel frattempo tieni sotto controllo la crescita dei peli di baffeto, sopracciglia, ascelle, inguine, gambe e braccia, ma non con il rasoio perchè quello fa venire i peli incarniti, meglio un'allegra ceretta a caldo, frena la caduta dei capelli e mantienili sempre lucenti e morbidi come seta e con i riflessi di perla ("perché tu vali" ed è per questo che lo devi fare ovviamente). Non fare quell'espressione imbronciata che ti vengono fuori le rughe, e se è già troppo tardi spalmati il siero di giovinezza per dire stop ai segni del tempo. Svegliati presto la mattina per avere il tempo di fare una doccia e mettere un velo di trucco e un velo sullo slip, ma non arrivare in ufficio (ammesso che ovviamente un lavoro tu ce l'abbia) trasandata perchè se no il capo non te si incula, e lui ci tiene che tu abbia un abbigliamento radical chic da donna in carriera, lui che va a braccetto con Enzo Miccio e Carla Gozzi. Quando torni a casa, non dimenticare di attivare il deodorante per ambienti al gusto di rugiada di montagna, quello che batti le mani e fa "puff" perchè se no finisce che tuo figlio o il tuo fidanzato va a farla da Paolo. E, per carità, non farti trovare con le ciabatte! Indossa le comode ciabattine modello Marilyn Monroe, quelle piumate e con un bel tacco che rendono la tua camminata fra i fornelli (perchè ovviamente devi cucinare tu) e il divano fra il sensuale e il fresco di giornata. Nel frattempo non dimenticare di indossare un intimo sexy che ti stia bene come alla modella di Intimissimi e di pulire casa con i guanti della Vileda che ti lasciano le mani morbide e la french manicure intatta, in modo tale che tuo marito o il tuo fidanzato torni e abbia voglia di fare Bum Bum sul pavimento che luccica come un brillante.





I filo-occidentalisti risponderanno che non è la stessa cosa! Che nessuno obbliga le donne a sottostare a questi dictat! Che se una donna non sottostà, beh, mica qualcuno la sfregia con l'acido!

Forse no. Tuttavia, si può davvero parlare di libertà in un contesto culturale patriarcale che impone questi dictat? Si può davvero dire che una ceretta a cui mi sottopongo o il fatto che cucini e pulisca solo io una casa che condivido con un partner sia una scelta libera e non piuttosto che sia un atto di abnegazione e aderenza e sottomissione alla cultura patriarcale imperante?

In questo senso, che differenza c'è con l'indossare il velo?




Sfatiamo qualche altro mito e torniamo alla religione musulmana.

La donna musulmana, dal punto di vista della Shari'a, la legge islamica, le cui regole generali sono comuni per ambo i sessi, è in tutto equivalente all'uomo. Come l'uomo, anche la donna viene indirizzata alla conoscenza e al perseguimento di nobili qualita' morali, quali la generosità, la gentilezza, l'altruismo, la sincerità. Come l'uomo, è tenuta ad osservare i precetti religiosi generali, come l'adempimento della preghiera, il digiuno durante il mese del Ramadan, il pellegrinaggio alla Mecca, l'elemosina rituale.

La realtà dei vari paesi a maggioranza islamica non deve essere confusa con la realtà islamica, interpretata alla luce del Corano e degli insegnamenti del Profeta. In molti paesi a maggioranza islamica il divario tra condizione maschile e femminile è notevole, tuttavia non è attribuibile alla struttura del Corano in sè e ai precetti della fede musulmana.

Come afferma Amina Nasreen, femminista e musulmana:
"Dopo tre anni di studi dell'Islam, di ricerca sull'ermeneutica e l'esegesi del Corano, posso affermare in tutta tranquillità che le sole idee come religione misogina e radicata in un machismo vendicativo nei confronti delle donne, provengono da due fonti extra-coraniche: l'ignoranza della gente e gli sforzi del patriarcato per assicurare la sua egemonia dentro le nostre comunità. L'Islam è l'unica religione che stabilisce espressamente la parità tra uomo e donna e regola norme di convivenza con persone di altre religioni.Tuttavia l'Islam è stato oggetto di manipolazione da parte di quei potenti alleati con i veri nemici dell'uguaglianza. [...]
Non c'è alcuna contraddizione tra Islam e femminismo. Può essere contraria al femminismo una religione che stabilisce l'uguaglianza tra i membri dell'umanità come base fondamentale della convivenza sociale? Può essere in contrasto con l'Islam una prospettiva a favore della Giustizia Sociale di Genere?  Credo di no, assolutamente no. Questa idea è un trucco del patriarcato in cui cadono, purtroppo, molte donne, con l'unico risultato che alcune escludono altre e promuovono la diffidenza nei confronti di quelle che sono diverse."


Il problema è, dunque, l'interpretazione delle Scritture all'interno di una cornice culturale patriarcale.

Un'interpretazione che utilizza la stessa logica occidentale, quella che accomuna i movimenti pro-life e gli attacchi alla legge 194/78, le battaglie politiche xenofobe o anti-berlusconiane, la misoginia, l'omo e la transfobia.

Insomma, la logica per cui si parla di donne solo per scopi che con le donne non hanno nulla a che vedere: per proteggere gli embrioni, per arginare il rischio di una globalizzazione che includa l'apertura alle culture medio-orientali, per difendere le nostre "amate" e amabili radici culturali e religiose, per vincere le elezioni, per ottenere le dimissioni del Presidente del Consiglio, per ribadire il binarismo sessuale, per sancire l'omosessualità e la transessualità come innaturali.

Le aderenti al movimento delle donne iraniane, musulmane e/o laiche, lo sanno bene.
La loro lotta è diretta, non all’Islam inteso come fede o identità culturale, ma al suo utilizzo politico e alla sua interpretazione in senso antidemocratico e patriarcale, una strumentalizzazione resa possibile dalla stessa forma di Stato iraniano, basato sul monopolio dei religiosi, tutti di sesso rigorosamente maschile.
Con questo tipo di finalità, il velo assume un nuovo significato. Come lo assunse durante le lotte del 1978-1979, quando le donne scesero in piazza contro le ingiustizie e le iniquità di un regime che consideravano corrotto, autoritario e asservito all’occidente, quando l'Islam era sentito come un simbolo di libertà e di progresso piuttosto che di regressione.
Allora, per le donne, l’utilizzo dello hejab o del chador (tenuta iraniana nera che copre il corpo della donna dalla testa ai piedi), oltre che essere il simbolo di una rivendicazione culturale e identitaria contro l’occidentalizzazione imperiale, era l’unico modo per legittimare la loro presenza e la loro militanza nello spazio pubblico accanto agli uomini e il loro accesso a quella categoria di “popolo” che in un Paese come l’Iran, proprio a causa del dominio della cultura patriarcale, era stata da sempre considerata preclusa alle donne.











mercoledì 5 settembre 2012

Stupro. Da pratica e dramma individuale ad azione terroristica e piaga sociale. Una carrellata di immagini e riflessioni.

Il termine "stupro" deriva dal latino: colpire, offendere, battere, percuotere.

Nella terminologia penale è indicato con il termine di "violenza sessuale", nel linguaggio corrente si fa spesso ad esso riferimento con il termine di "abuso".

Il termine "abuso" deriva ugualmente dal latino e sta ad indicare un uso eccessivo, improprio in senso quantitativo. Un abuso sessuale sarebbe dunque un uso smodato o eccessivo della sessualità. E' evidente che questo termine si rivela improprio dal momento che penalizza la quantità piuttosto che l'assenza di consenso da parte della persona lesa.






I dati ISTAT più recenti - risalenti al 2011 - mettono in evidenza fra tutte le forme di violenza sessuale: le molestie fisiche, ovvero l'essere stata toccata sessualmente contro la propria volontà (79,5%), l'aver avuto rapporti sessuali non desiderati (19,0%), il tentato stupro (14,0%), lo stupro (9,6%) e i rapporti sessuali degradanti e umilianti (6,1%).
Il 21% delle vittime ha subito la violenza sia in famiglia che fuori, il 22,6% solo dal partner, il 56,4% solo da altri uomini. I partner sono responsabili della quota più elevata di tutte le forme di violenza fisica rilevate, e sono responsabili in misura maggiore anche di alcuni tipi di violenza sessuale come lo stupro nonché‚ i rapporti sessuali non desiderati, ma subiti per paura delle conseguenze. Il 69,7% degli stupri, infatti, è opera di partner, il 17,4% di un conoscente e solo il 6,2% è stato opera di estranei. Il rischio di subire uno stupro o un tentativo di stupro è tanto più elevato quanto più è stretta la relazione tra autore e vittima. Gli sconosciuti commettono soprattutto molestie fisiche sessuali, stupri solo nello 0,9% dei casi e tentati stupri nel 3,6% contro, rispettivamente, l'11,4% e il 9,1% dei partner.

Nel 2009 il Viminale durante un convegno dedicato alla violenza sulle donne, tenutosi a Roma, ha emanato i seguenti dati, raccolti sul territorio italiano:

  • Gli autori delle violenze sessuali sono italiani in più di sei casi su dieci.
  • Le vittime di violenza sessuale sono donne nell’85,3% dei casi e nel 68,9% dei casi sono di nazionalità italiana.
  • Gli autori di stupro sono italiani nel 60,9% casi, il 7,8% dei violentatori è romeno, mentre il 6,3% è marocchino.


Eppure c'è chi sostiene che in famiglia non avvengano affatto stupri. Che solo gli "stranieri" siano stupratori. Che gli stupri si consumino in strada, dietro qualche angolo buio, a tarda notte, ad opera di sconosciuti fuori di testa.




Eppure si continua a parlare solo di vittime italiane. E delle donne di origini non italiane non si cura nessun*. Tranne la polizia, ovviamente (perdonate il sarcasmo).




















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Ma di fronte a questi dati, che ci dicono chiaramente che non si tratta nè di episodi isolati e nè di eventi poco numerosi, possiamo davvero ancora parlare della violenza sessuale come di un fenomeno circoscritto e individuale?



LO STUPRO E' UN'AZIONE TERRORISTICA. 


E' trasversale alle culture, alle nazionalità, alle religioni, alle ideologie politiche, allo status socio-economico, al livello di scolarizzazione.  
Lo stupro ha un'unica costante: una vittima e uno o più carnefici.

La violenza sessuale è perpetrata ovunque: nelle case, nelle strade, nei Centri di Identificazione ed Espulsione, in pace, in guerra. 


Lo stupro è da sempre uno strumento di assoggettamento al dominio maschile,  una pratica che potremmo chiamare politica, ossia con delle finalità egemoniche,  con delle ricadute pratiche a livello sociale, a livello di gerarchizzazione sociale.  


"La scoperta dell'uomo che i suoi genitali potevano servire come arma per generare paura deve essere annoverata fra le più importanti scoperte dei tempi preistorici, insieme con l'uso del fuoco e le prime rozze asce di pietra. Dalla preistoria ai giorni nostri - è mia convinzione - lo stupro ha svolto una funzione critica. Si tratta nè più nè meno di un processo di intimidazione con cui tutti gli uomini mantengono tutte le donne in uno stato di paura." (Susan Brownmiller)


Se la paura non fosse funzionale al mantenimento di un'egemonia maschile e se lo stupro non fosse una pratica politico-sociale, esisterebbe una qualche tutela per la donna. Esisterebbero delle pratiche preventive efficaci. Esisterebbe soprattutto un approccio sociale differente da quello che, sia storicamente e sia attualmente, vediamo legittimato; un approccio che miri ad inquadrare la violenza sessuale come una questione maschile, un approccio volto a responsabilizzare e ad educare al rispetto della volontà o no-lontà dell* partner.


E invece...

Ricorderete tutt* la sentenza shock della Cassazione che nel 1999 decretò l'impossibilità di usare violenza sessuale nei confronti di una donna che indossa i jeans. 

Che cosa è cambiato da allora, nell'arco di 13 anni? Sotto un piccolo collage di articoli pubblicati negli anni 1999, 2006 e 2012 (I, II, III).




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Le sentenze cosiddette shock sono poco numerose, ad onor del vero, tuttavia ci danno un'informazione molto utile: ci danno una chiara idea di quali luoghi comuni esistano ancora e siano ancora tramandati socialmente riguardo alla violenza sessuale. 
L'uomo - lo stupratore - ha sempre un'attenuante, fosse anche solo quella di essere in gruppo
Le aggravanti sono da ricercare nella donna. 
Perchè aveva i jeans, perchè aveva già fatto sesso, perchè era transessuale, perchè è una moglie.

La donna è vittima. E' un oggetto. E' de-umanizzata



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Oppure è una provocatrice. Se la cerca. Non si copre abbastanza. Si veste come una battona. Dà troppa confidenza agli sconosciuti. Non gira accompagnata per strada. Non sta abbastanza attenta.





Tanto che alla fine pare che il problema sia della donna.
Perchè è una sprovveduta. O è una puttana.

Tanto che alla fine è la donna che deve risolverselo, seguendo corsi di autodifesa o vestendo abiti monacali. 

E se non è lei che deve risolverselo, allora è la "giustizia", con delle pene certe e più severe.



Ma se proviamo a guardare alla violenza sessuale 
(il discorso vale ovviamente per tutte le tipologie di violenza di genere) come ad una pratica sociale terroristica ed egemonica

ha ancora senso parlare di pene severe, autodifesa, coprifuoco prima della mezzanotte e castrazione chimica? 

Ha ancora senso demonizzare le minigonne, le abitudini sessuali femminili? 

Ha ancora senso differenziare stupratori italiani e "stranieri"?






Pensiamoci. 


"I mass media trattano la violenza sulle donne, ad esempio lo stupro, le percosse e l'omicidio di mogli e fidanzate, o l'incesto maschile con i propri figli, come aberrazioni che riguardano solo l'individuo. Nascondendo il fatto che in verità qualsiasi violenza maschile nei confronti delle donne fa parte di una operazione pianificata". (Marilyn French)